Massimo de Angelis e Giampaolo Cadalanu

LA GUERRA NASCOSTA

L’Afghanistan nel racconto dei militari italiani

 

La finalità del libro è racchiusa nel suo stesso titolo. Si tratta evidentemente di una denuncia delle politiche del governo in merito alla realtà di una missione spacciata come operazione di peace keeping, dal sottinteso contenuto umanitario, a fronte della consapevolezza di un intervento armato vero e proprio. L’assunto del saggio si sviluppa grazie a documentazioni ufficiali e soprattutto a testimonianze di prima mano degli stessi militari italiani intervenuti “in teatro” come si dice in gergo: operatori delle forze speciali, snipers, piloti, addirittura generali con importanti ruoli di comando. Coloro ancora in servizio sono citati con nomi di fantasia per rispettarne l’anonimato; altri hanno invece accettato di rendere palese la propria identità.

Un esempio dell’antitesi fra auspici politici e realtà è manifesto in occasione dell’invio del primo contingente di alpini italiani nella località di Khost. “Si tratta di una missione di combattimento che ha l’obiettivo primario di cercare, affrontare e distruggere o catturare tutti i membri di Al Qaeda, i talebani o quelli che li appoggiano”– sostiene il portavoce americano di Enduring Freedom, col.  Roger King.

Quella degli alpini è una missione a rischio ma le sue finalità sono comunque di peace keeping” –insiste il ministro della Difesa italiano. Già a dicembre 2001, lo Stormo Lupi Grigi degli AV8 decollati da nave Garibaldi compì oltre 100 missioni di bombardamenti.

La realtà in Afghanistan darà purtroppo ragione al colonnello americano: 53 militari italiani morti e 723 feriti, anche gravemente, nel corso di una lunga missione mai promossa dalle Nazioni Unite e nella quale la Nato intervenne soltanto due anni dopo.

E che di guerra si sia trattato e non di mantenimento di una pace inesistente da conservare, lo dimostra anche l’esistenza di una “unità fantasma”, la Task Force 45 formata dalla élite delle forze speciali italiane, quotidianamente impegnata in azioni di combattimento e inizialmente neppure compresa nel novero delle truppe ufficialmente sul terreno. Numerosi “operatori” della fantomatica TF45 raccontano nei particolari le impegnative operazioni di guerra portate a termine, talvolta risoltesi positivamente solo grazie ai provvidenziali bombardamenti degli aerei americani di supporto; a quelli italiani era vietato intervenire.

Le drammatiche testimonianze dei militari, quasi sempre riportate in prima persona, emendano la lettura dalla pedanteria di certi saggi conferendole una apprezzabile originalità. Sempre, però, la “realtà romanzata” di certe esperienze mantiene solide e verificate radici storiche. E’ il caso della testimonianza della Fonte Falcon, il quale racconta un viaggio di piacere in Afghanistan con la fidanzata, prima dell’11 settembre, accompagnato addirittura da miliziani del Mullah Omar. Il viaggio, spiato a sua insaputa da agenti britannici, si concluderà improvvisamente dopo l’attentato al leader tagico anti-talebano Massoud per mano di due kamikaze di Al Qaeda. L’attacco alle torri gemelle lo sorprende mentre è in volo per l’Italia e non appena atterrato viene direttamente spedito dall’aeroporto all’ambasciata americana: lo aspetta la Cia alla quale riferire quanto visto nel “viaggio di piacere”.

Le analisi, le testimonianze e gli approfondimenti non mancano ovviamente di contestualizzare la missione italiana in Afghanistan nel più vasto e complesso disegno geopolitico nell’area e, in particolare, negli obiettivi strategici americani sulle risorse energetiche della regione. La concatenazione di documenti governativi e degli appetiti del contesto petrolifero statunitense sui giacimenti del Turkmenistan da convogliare attraverso l’Afghanistan prospetta scopi ben diversi dalla vendetta per l’attentato alle Torri: scopi da raggiungere dapprima con accordi segreti con i talebani (di cui vengono documentati sia l’ospitalità negli Stati Uniti sia i nomi dei politici americani che fungono da intermediari), poi con l’insediamento al loro posto di un governo amico: quello di Hamid Karzai.

Con l’intervento della Nato nella missione ISAF (che ha lo scopo di proteggere proprio il governo di Karzai) la missione in Afghanistan comincia a vestire anche le finalità umanitarie sbandierate alla vigilia. Vengono istituiti una trentina di PRT, centri di coordinamento per la ricostruzione. Da lotta al terrorismo si passa all’occupazione del territorio. Strade, scuole e ospedali fanno da contrappunto ai combattimenti sempre più cruenti contro i talebani, i quali colpiscono e si rifugiano in Pakistan. Agli italiani tocca il comando della Regione West, limitrofa al confine con l’Iran.

Le forze speciali italiane a disposizione di Isaf, pur inquadrate nel comando di Herat, seguono però una logica operativa tutta particolare, poiché dipendono di fatto dal comando centralizzato di Kabul, che “dimentica” spesso di rispettare i caveat italiani che ne vietano impieghi al di fuori della linea di comando nazionale. Oltre ai caveat, le cosiddette dimenticanze riguardano anche un altro cavallo di battaglia usato dal governo per convincere i parlamentari più riottosi a impieghi bellici delle nostre truppe: sono le ROE, le regole d’ingaggio, che nei fatti ben oltre la cosiddetta “difesa personale” nell’uso delle armi si dilatano sino a prevedere le “intenzioni” aggressive del nemico e addirittura il “carta bianca” citato dalla Fonte Gufo:” In altre parole, chi spara per primo spara due volte”.

Oltre che in vite umane – 250 mila morti, 47 mila dei quali civili innocenti – la guerra in Afghanistan riporta un bilancio negativo anche dal punto di vista finanziario. Le voci di spesa ufficiali parlano di 7 miliardi di euro ma secondo gli analisti interpellati ci sono 900 milioni di costi generali e soprattutto altri 840 milioni di euro spesi dal governo italiano dal 2015 in poi in finanziamenti diretti al governo afghano. Chi li ha ottenuti? Che fine hanno fatto? Come sono stati giustificati? Tutti interrogativi che interessano sicuramente anche gli oltre 50 mila militari impiegati in Afghanistan nel corso di vent’anni e le migliaia di tecnici e operatori delle numerose ONG operanti nel Paese.

Il saggio riporta fra l’altro contributi dell’ambasciatore Stefano Pontecorvo, degli ex ministri Massimo D’Alema e Arturo Parisi e dell’inviata UE Emma Bonino.

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